domenica 22 febbraio 2015

12. NEL LABIRINTO

Illustrazione di Alessia Tricarico
I labirinti mi hanno sempre affascinato.

A volte penso alle persone come a dei labirinti.

Emozioni che si intrecciano, episodi che hanno segnato la loro vita, per quanto fossero intricati. Il tempo perso per raggiungere un obiettivo.

Io sono una strada dritta. Non provo nulla, alcun amore mi ha cambiato, nessuna decisione difficile da prendere…

Forse non conviene essere così, dei labirinti umani. Ma essere una stanza vuota è peggio.

Seguendo la scia delle orme che ho trovato, vado dritto.

Giro a destra e poi a sinistra, di nuovo sinistra, di nuovo sinistra, vicolo ceco.

Stop.

Le orme ritornano indietro, sui propri passi.

Ritornano all’incrocio, vanno a piè della siepe, non al centro della strada.

Vanno a destra.

Si dice che la destra rappresenti la giustizia.

Vediamo se in questo caso è la strada giusta.

Vado dritto per un po’.

Fin quando mi trovo, credo, al centro esatto del labirinto.

Dove c’è solo un pozzo diroccato.

Qui le pareti cespugliose non sono potate come il resto del labirinto.

Una rosa sui sassolini per terra, che circondano il pozzo.

Mi avvicino per prenderla. Qui non ci sono roseti.

Sento tossire.

Ma non c’è nessuno.

Mi precipito a guardare giù per il pozzo.

E’ abbastanza profondo, ma e posso scorgervi una figura.

Sembra essere un ragazzino.

Probabilmente, a causa della caduta, è  privo di sensi.

Mi guardo velocemente intorno in cerca di qualcosa per tirarlo su.

C’è solo il secchio, gettato poco lontano, ma senza corda.

Mi avvicino alla siepe e comincio a strappare i rami, senza spezzarli, cercando di farne un pezzo unico, mi aiuto col coltello rubato dalla cucina. Preso in prestito, intendevo.

Che non mi è di grande aiuto.

Mi sanguinano le mani, per quanto sono aspri questi rami. Ma sono resistenti. Ed è questo, quello di cui ho bisogno adesso.

Resistenza.

Non c’è molta distanza dalla parete del labirinto al pozzo. Dovrebbe andare bene come lunghezza.

Tossisce di nuovo.

Senza troppi pensieri, tenendo ben stretta la finta corda tra le mani, mi butto dentro.

Atterrando sul fondo, capisco che il ragazzino non dev’essersi ferito gravemente, grazie all’erba alta e al muschio, che l’avranno accolto regalandogli giusto qualche graffio e una botta che l’avrà fatto svenire.

Vedo del sangue nei sui capelli e sui sassi del pozzo.

Lo prendo sulle spalle.

Ma appena provo a salire tirando il ramo, questo si spezza, cadendo tutti e due all’indietro, e lui ribatte la testa.

Non ci voleva.

Guardo la muratura intorno a me.

I sassi non sono messi in modo regolare, posso riuscire ad arrampicarmi.

Lego con quel pezzo di liana, o come la si vuol chiamare, il ragazzino dietro di me.

A un primo sguardo potrebbe avere 12, 13 anni.

Comincio a mettere piede dopo piede, mi aiuto arrampicandomi con le mani, già sanguinanti da prima a causa di quell’inutile corda fittizia creata dalla siepe.

A volte ci vuole solo resistenza.

Non un piano geniale, o una soluzione illuminante, né una via di fuga.

Semplicemente, resistenza.

Dopo lunghi, interminabili minuti siamo fuori.

Appoggio il ragazzino per terra, che tossisce di nuovo.

E’ un buon segno, seppur è ancora svenuto.

Sospiro e mi stiracchio le braccia, che fanno un rumore di ossa.

Dovrò portarlo in spalle per tutto il labirinto.

Ma non è un problema.

Il mio sguardo cade sulla rosa, un po’ rovinata.

Devo averla pestata mentre uscivo dal pozzo.

La prendo. E’ bianca. Un po’ sporca.

La metto in tasca.

Forse anche questa, se ripiantata, può diventare un cespuglio.


Scritto da Valeria Quarto

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